28 maggio 2008

26 maggio 2008

Turizombies



Carissimo amico,
mi dici che ti piacerebbe passare una vacanza dalle mie parti? Bene! Perchè no!
La mia città, Lecce, ha un centro storico splendido e i dintorni sono eccezionali, soprattutto lungo la costa.
Preferisco non suggerirti un percorso nè farti da cicerone.
Ammetto che non ne sarei capace.
E poi, questa terra non ha nè capo nè coda e va scoperta disordinatamente, così com'è!
Potrei toglierti il gusto di farlo da te?
Evita di acquistare una guida cartacea.
Ti basti una cartina stradale, la voglia di cibarti con gusto e curiosità, di muoverti da una costa all'altra e, se sei in città, di guardare spesso in alto, dove le linee dei palazzi antichi creano incroci illusori ma incantevoli, sullo sfondo del cielo azzurro.
Prova. Scoprirai effetti... inediti!
Però, un consiglio fraterno te lo devo dare. Vieni fuori stagione. O meglio, vieni in una delle stagioni migliori: fine primavera oppure fine estate. Evita la cosiddetta "stagione turistica".
Se vuoi goderti lo spettacolo, fallo quando "la sala è semivuota", in compagnia di persone sensibili ed educate come te.
Goditi la costa settembrina. In una giornata puoi fare il bagno in decine di posti diversi, in acqua sempre limpida e fresca.
Capirai davvero cos'è il mare, il suo profumo, il suo carattere, se ci farai un salto nel tardo pomeriggio, prima dell'aperitivo, quando sta per tramontare il sole e non c'è più nessuno.
Non scordare che questo mare è solitudine. La solitudine più bella.
E non disdegnare i paesini piccoli e sconosciuti. A volte la scoperta di una chiesetta rupestre, del suo pacifico isolamento in mezzo ai rovi o in prossimità degli olivi, può svegliare in te sensazioni nuove e genuine.
Stai tranquillo, mangerai bene, soprattutto se non è sabato sera. Prova il cibo locale, a più riprese, e il vino rosso. Direi un buon Primitivo. Ti scalderà l'anima.
Ah, scusami se mi sono espresso ambiguamente.
Tempo fa, quando ti parlai della mia "visione non democratica del bello", intendevo dire che secondo me le bellezze locali dovrebbero essere innanzi tutto a cura e a beneficio delle popolazioni residenti.
La massificazione del turismo sarà pure "democratica", ma è profondamente distruttiva, soprattutto se i proventi non sono spesi a vantaggio di tutti.
Quindi, dimmi, di che democrazia stiamo parlando se non è per tutti?
Ne è dimostrazione questa piccola città, potenzialmente bellissima, che a fine estate (ma anche, aimè, alla fine di ogni "evento" del week-end), si riduce a pisciatoio pubblico e mentre pochi si sfregano legittimamente le mani, felici di aver fatto il loro affari, il grosso della cittadinanza, il vero padrone di casa, che ci guadagna?
Cediamo la nostra città (dintorni compresi) alle orde barbariche dei turi-zombies, in cambio di traffico inquinante, rumori molesti, limitazioni nel libero movimento, innalzamento dei prezzi...
Per questo, ti consiglio, stai alla larga anche dai mega concertoni di musica finto-tradizionale... dalle discoteche per ebeti... dalle pseudo-sagre paesane tutte uguali.
Cerca il silenzio, se ancora ce n'è, in qualche angolo sfuggito al caos dei tempi moderni.
E se lo trovi, fammelo sapere.
Sarò lì in un attimo.

16 maggio 2008

Capitolo 4 - Epilogo

Si fermò sul vialetto di casa. L'aria fuori era completamente cambiata. Non più fresca, nè limpida. Una specie di diffusa foschia rendeva ancora più irreale quel paesaggio sempre più assurdamente silenzioso.
Si rese conto che non c'era più la brezza, nè uccelli in volo, nè guaiti di cani di campagna. Nulla. Nessun dannato rumore di fondo.
Anzi si.
Ora si.
Un rumore cupo e distante. Poi di nuovo quel maledetto ronzio attraverso i timpani. Si prese istintivamente la testa tra le mani. Le pressò forte sulle orecchie.
Il ronzio aumentava, insieme al dolore. Non ne poteva più.
La stanchezza lo chiamava alla resa, impadronendosi della sua volontà.
D'un tratto dovette alzare lo sguardo. Gli occhi sbarrati, la bocca spalancata. Luci intermittenti simili a grossi leds colorati si facevano largo attraverso la densa foschia, evidenziando una specie di movimento rotatorio che lo ipnotizzava.
Un fascio cilindrico di luce, proveniente dall'alto, lo investì d'improvviso. Non si mosse. Non poteva nè voleva più muoversi.
Fermo, dritto, ritornò con le braccia penzoloni lungo i fianchi e attese, passivo.
Poi levitò. Lentamente. Inesorabilmente. Senza reagire.
Fu risucchiato, attraverso il fascio luminoso, verso il cerchio di luci intermittenti che delimitavano un'apertura scura di forma circolare. Sembrava l'ingresso di un enorme, mostruoso, mezzo di trasporto alieno. Ne fu ingurgitato mentre l'apertura si chiudeva sotto i suoi piedi.
Si ritrovò nel ventre orrendo della gigantesca astronave, fatto di lamiere color rame.
Sentì un sinistro sferragliare. Provò un brivido di infinito terrore dietro la schiena, nonostante il caldo soffocante. Sapeva di non poter far nulla. Di non voler far nulla.
Poi vide.
Vide i cavi metallici. Centinaia di cavi metallici che stridendo fuoriscivano dalle pareti.
E i corpi inermi. Centinaia di corpi inermi. In piedi, seduti, stesi.
Corpi di carne e di metallo.
Di metallo e di carne.
Provò a sorridere. Fu invaso da una specie di pacifica amarezza.
Capì, in quel momento, che non stava succedendo di nuovo.
Stava, semplicemente, succedendo.
= F I N E =

Capitolo 3

Scese dall'autobus. Aveva smesso di piovere e l'aria odorava di terra bagnata. Il cielo, spazzato da una piacevole brezza, era finalmente limpido. Attraversò la strada poco trafficata e si incamminò su un sentiero tra i campi. Mezz'ora dopo vide il tetto spiovente della sua vecchia casa.
Provò disagio. Quell'incontro lo intimoriva. Dopo anni di silenzio sentiva di aver perso il diritto a definirsi figlio. Ma quell'emozione era turbata da ben altre paure.
Profonde e indicibili.
Sul vialetto di casa ammirò la zona d'ombra creata dagli alberi potati ad arte, in linea perfetta con le siepi laterali. Bussò timidamente. Poi ancora. Forse dormivano. Provò a girare la maniglia del portoncino d'ingresso. Nessuna resistenza. Era aperto.
Entrò cautamente. Non voleva spaventarli. L'arredamento non era cambiato di molto. Minimale ed elegante.
Troppo silenzio.
Salì al piano superiore. Nessuno.
Letti intatti. Ogni cosa perfettamente al proprio posto. I suoi genitori non erano mai stati il genere di persone che passano la notte fuori di casa. Dopo tutto quel tempo dovevano aver cambiato abitudini.
Lo sperava.
Decise di schiarirsi le idee con una doccia. Resistette alla tentazione di aspettarli dormendo.
Era stanco di incubi.
Era debole. Aveva i crampi allo stomaco. Un lieve ma prolungato capogiro lo convinse a scendere in cucina e mangiare qualcosa. Latte, biscotti, marmellata, seduto al tavolo della sua infanzia.
Cominciò a dare segni di impazienza.
L'attesa lo sfiniva.
Gli doleva di nuovo la testa. Attivò il cellulare, ma non c'era segnale. Accese la TV, che era proprio di fronte al tavolo. Niente. Sullo schermo solo fastidiose scariche elettrostatiche.
La testa non gli dava tregua.
Si alzò, bevve qualche sorso d'acqua direttamente dal rubinetto.
Poi di nuovo quel ronzio insopportabile nelle orecchie.
Basta. Era spossato. Non riusciva a riflettere. Nè a mantenere la calma.
Uscì sbattendo la porta, deciso a fare qualcosa. Qualsiasi cosa.
Aveva gli occhi di un pazzo.

15 maggio 2008

Capitolo 2

In Aeroporto si confuse tra la gente. Cercò il locale più affollato per restare invisibile. Mangiò seduto al banco. Poi bevve un caffè troppo amaro, sorseggiandolo a lungo. Pagò in contanti, non facendo caso al sorriso ammiccante della cameriera. Uscì senza fretta.
La stazione degli autobus era a due passi. Salì, pagò il biglietto all'autista e sedette accanto al finestrino, in una delle file retrostanti. In testa cumuli di pensieri irrisolti.
Ebbe la tentazione di chiamare la sua famiglia. Vederlo dopo tutto quel tempo li avrebbe sconvolti. Ne era certo.
Il bus partì traballando. Non se ne accorse nemmeno.
Attivare il cellulare poteva essere rischioso. E poi era ovvio che i suoi avrebbero fatto troppe domande. Lasciò perdere. Si impose prudenza.
Cominciò a piovere. Poco, ma con insistenza. Le luci sfocate delle auto provenienti dalla direzione opposta trapassavano i finestrini bagnati, irradiandosi scompostamente.
L'intensità dei pensieri lo portò ad assopirsi.
L'aria si fece pesante. C'era cattivo odore. Di tanto in tanto un ronzio fastidioso gli penetrava la testa da un orecchio all'altro. Provava fastidio.
Un colpo di tosse. Poi un altro.
Sentiva un calore viscido insinuarsi lungo la schiena. Si accorse di non poter più muovere la testa nè aprire gli occhi.
Di nuovo il ronzio. Da parte a parte. Si sentì soffocare. Le braccia, le gambe, le mani, avvolte in quel calore umido e innaturale si intorpidirono. Decise di urlare. Le labbra, incollate l'una all'altra, soffocarono quel tentativo disperato in un rantolo grottesco.
Poi si vide. Vide sè stesso farsi corpo unico con l'orrendo sedile. Le pareti del bus divennero lamiera incandescente.
Colpi di tosse secca. Sudore. Cavi metallici fuoriscivano stridendo dalle pareti.
Dolore. Intenso. Cavi metallici arpionati alla carne viva. La sua.
Carne e metallo. Metallo e carne.
La brusca frenata lo svegliò.
Di nuovo.
Era successo di nuovo.
Succedeva sempre.

13 maggio 2008

Capitolo 1

Salì sul primo volo disponibile, con meno dell'essenziale in un piccolo zaino, diretto verso una non-meta in cui sparire.
Smise di sentirsi osservato solo quando provò la pressione del decollo nello stomaco. Poi si addormentò. Nè fame, nè sete, nè gli assistenti di volo riuscirono a svegliarlo.
Nel sonno vide oggetti di fuoco sfrecciare in un cielo di rame e di piombo e visse una fuga senza senso tra i sentieri sconnessi di un bosco opprimente. Udiva il suo stesso affanno mentre la corsa frenetica si mutava in un passo forzato e innaturale, come se avesse muscoli di gomma.
I suoi occhi pieni di panico guardavano le gambe affondare lentamente nel terreno fattosi massa di fango densa e vorace. I tendini si tesero in uno sforzo inutile.
Suoni ovattati, più buio che luce, bagliori improvvisi ma brevi.
L'aereo atterrò con un colpo secco. Fu un risveglio violento, senza sollievo. Sentiva il sudore irritargli la fronte e gli altri passeggeri vociare eccitati e stanchi. Un dolore pungente allo stomaco, vuoto e in subbuglio.
Ancora incubi, sempre incubi.
Aprì gli occhi solo quando gli altoparlanti gracchiarono le formule di rito.