In Aeroporto si confuse tra la gente. Cercò il locale più affollato per restare invisibile. Mangiò seduto al banco. Poi bevve un caffè troppo amaro, sorseggiandolo a lungo. Pagò in contanti, non facendo caso al sorriso ammiccante della cameriera. Uscì senza fretta.
La stazione degli autobus era a due passi. Salì, pagò il biglietto all'autista e sedette accanto al finestrino, in una delle file retrostanti. In testa cumuli di pensieri irrisolti.
Ebbe la tentazione di chiamare la sua famiglia. Vederlo dopo tutto quel tempo li avrebbe sconvolti. Ne era certo.
Il bus partì traballando. Non se ne accorse nemmeno.
Attivare il cellulare poteva essere rischioso. E poi era ovvio che i suoi avrebbero fatto troppe domande. Lasciò perdere. Si impose prudenza.
Cominciò a piovere. Poco, ma con insistenza. Le luci sfocate delle auto provenienti dalla direzione opposta trapassavano i finestrini bagnati, irradiandosi scompostamente.
L'intensità dei pensieri lo portò ad assopirsi.
L'aria si fece pesante. C'era cattivo odore. Di tanto in tanto un ronzio fastidioso gli penetrava la testa da un orecchio all'altro. Provava fastidio.
Un colpo di tosse. Poi un altro.
Sentiva un calore viscido insinuarsi lungo la schiena. Si accorse di non poter più muovere la testa nè aprire gli occhi.
Di nuovo il ronzio. Da parte a parte. Si sentì soffocare. Le braccia, le gambe, le mani, avvolte in quel calore umido e innaturale si intorpidirono. Decise di urlare. Le labbra, incollate l'una all'altra, soffocarono quel tentativo disperato in un rantolo grottesco.
Poi si vide. Vide sè stesso farsi corpo unico con l'orrendo sedile. Le pareti del bus divennero lamiera incandescente.
Colpi di tosse secca. Sudore. Cavi metallici fuoriscivano stridendo dalle pareti.
Dolore. Intenso. Cavi metallici arpionati alla carne viva. La sua.
Carne e metallo. Metallo e carne.
La brusca frenata lo svegliò.
Di nuovo.
Era successo di nuovo.
Succedeva sempre.
La stazione degli autobus era a due passi. Salì, pagò il biglietto all'autista e sedette accanto al finestrino, in una delle file retrostanti. In testa cumuli di pensieri irrisolti.
Ebbe la tentazione di chiamare la sua famiglia. Vederlo dopo tutto quel tempo li avrebbe sconvolti. Ne era certo.
Il bus partì traballando. Non se ne accorse nemmeno.
Attivare il cellulare poteva essere rischioso. E poi era ovvio che i suoi avrebbero fatto troppe domande. Lasciò perdere. Si impose prudenza.
Cominciò a piovere. Poco, ma con insistenza. Le luci sfocate delle auto provenienti dalla direzione opposta trapassavano i finestrini bagnati, irradiandosi scompostamente.
L'intensità dei pensieri lo portò ad assopirsi.
L'aria si fece pesante. C'era cattivo odore. Di tanto in tanto un ronzio fastidioso gli penetrava la testa da un orecchio all'altro. Provava fastidio.
Un colpo di tosse. Poi un altro.
Sentiva un calore viscido insinuarsi lungo la schiena. Si accorse di non poter più muovere la testa nè aprire gli occhi.
Di nuovo il ronzio. Da parte a parte. Si sentì soffocare. Le braccia, le gambe, le mani, avvolte in quel calore umido e innaturale si intorpidirono. Decise di urlare. Le labbra, incollate l'una all'altra, soffocarono quel tentativo disperato in un rantolo grottesco.
Poi si vide. Vide sè stesso farsi corpo unico con l'orrendo sedile. Le pareti del bus divennero lamiera incandescente.
Colpi di tosse secca. Sudore. Cavi metallici fuoriscivano stridendo dalle pareti.
Dolore. Intenso. Cavi metallici arpionati alla carne viva. La sua.
Carne e metallo. Metallo e carne.
La brusca frenata lo svegliò.
Di nuovo.
Era successo di nuovo.
Succedeva sempre.
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